Un crinale sottile
di Tomaso Montanari:
Conoscere le opere di Francesco Levi significa camminare su un crinale sottile, quello che separa l’ironia dalla disperazione, il bisogno degli altri dall’imperativo della solitudine, l’apertura di rapporto, e di senso, dalla presa d’atto della loro impossibilità. Le sue mani disegnano ossessivamente il mondo, sul mondo: supporti di ogni sorta, fogli, taccuini, libri, vetri, tele, oggetti di recupero. Il suo è un segno senza fine, e senza soluzione di continuità: vederne un’opera significa raccogliere il frammento di un discorso, entrare in un universo di significati. Disegnare non serve a niente, si intitola la sua mostra (aperta a Brescia in questi giorni), ed è anche questa un’affermazione aperta,: perché se è vero che solo ciò che non è piegato a una utilità concreta può salvare, è anche vero che la salvezza non è certo automatica, garantita, continua.
La formazione al disegno industriale si sente, cosí come si percepisce l’allenamento all’illustrazione (con figure che echeggiano, per esempio, quelle di Marjane Satrapi, non remota anche nell’inclinazione di umore). Ma le suggestioni sono ben radicate nell’arte alta del Novecento, e sembra di percepire riverberi da Lorenzo Viani, da Charlotte Salomon.
In questa rarefatta e preziosa poesia visiva c’è sempre come l’attesa di una parola che abbia la forza di liberare. «Ma dimmi una sola parola e serena sarà l’anima mia»: viene alle labbra il verso in cui Vittorio Sereni parafrasa la celebre invocazione della liturgia cattolica. Una parola di salvezza. Una preghiera.
Come quella che corre nella stampa che vedete: «Non te ne andare quando me ne vado». Una supplica infantile, come di un bambino che abbia paura che il mondo sparisca quando si spegne la luce. Come di un morente che speri non nella trascendenza, ma nel persistere delle cose. O come di un umano che faccia i conti con i propri momenti di assenza, di rinuncia, di resa, e chieda aiuto. E, questo, il dialogo tra le due figure: lontane eppure incapaci di lasciarsi; incatenate alle loro ombre, che si proiettano oltre il limite della scena, e sembrano capaci di trascinarle via. Ma, come sempre, il punto non è spiegare, e neppure capire. Semmai sentire, ascoltare, lasciarsi attraversare. E allora l’immagine e le parole si ricompongono in una stessa sospensione, in una rappresentazione struggente della condizione umana. «Non te ne andare quando me ne vado»: pian piano ti sembra la cosa piú naturale da pensare, da sussurrare. Mentre sembra che tutto scivoli via.